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Una
grande confusione La
direzione del partito democratico ha confermato il principale messaggio
politico che il Pd ed il suo governo intendono dare al paese: completando le
riforme si riusciranno a risolvere i problemi che affliggono l’Italia. È un
messaggio che da respiro alle istanze di cambiamento coltivate per decenni
nella nostra società e che spiega il successo ottenuto finora da Renzi. Sotto
un profilo strettamente tematico, potremmo ritenere volentieri meglio le
riforme, che la rivoluzione o la conservazione. Qualunque Stato, ad un
determinato momento del suo percorso si accorge che deve ripensare d’accapo
alcune istituzioni, la cui funzione potrebbe essersi logorata, inceppata, o
semplicemente, non viene più giustificata dal
complesso della cittadinanza. Non c’è un’autentica ragione di opporsi ad un
disegno riformatore in quanto tale e si capisce facilmente perché la
minoranza interna a Renzi ogni volta che promette sfracelli, finisce per
sottoporsi alle indicazioni della segreteria del partito, o al limite,
qualche suo esponente, capita l’antifona, se ne va da un’altra parte. Non c’è
dubbio alcuno che Renzi abbia ragione quando
sostiene che l’Italia ha bisogno di una riforma. Non è stato il primo a dirlo
nella storia della Repubblica. L’argomento è lo stesso che sosteneva Bettino
Craxi, quasi trent’anni fa, la “Grande Riforma”. Ovviamente i detrattori
possono dire che Craxi parlò moltissimo di Grande riforma
ma non ne fece mai niente, Renzi invece, piano piano, ne fa una dietro
l’altra. Il jobs act, la legge elettorale, il
monocameralismo e chissà cos’altro potrà inventarsi. Anche Craxi avrebbe
potuto forzando un po’ la mano, ottenere qualche riforma qua e là, ad
esempio, fu a suo modo una riforma ed anche significativa, l’abolizione della
scala mobile per la dinamica salariale. Ma Craxi intanto non aveva numeri
sufficienti, era solo la seconda forza del governo e la terza del Paese e
soprattutto non riteneva utile procedere a sprazzi riformando dove capitava.
La sua idea era di cominciare dalla testa, ovvero introdurre un modello
presidenziale in Italia, più o meno come era accaduto in Francia con De
Gaulle nel 1956. La sola idea presidenzialista, lo sanno bene i pacciardiani
nel partito repubblicano, equivaleva ad un’accusa di fascismo e nemmeno Renzi
è riuscito a rimuovere tale opinione a riguardo. Lui stesso è accusato di
essere un dittatore nonostante non intacchi il modello istituzionale del
paese nel suo impianto generale, puntando solo alcuni singoli aspetti. Senza
avere necessariamente simpatie per il modello presidenziale, temiamo che
Renzi si avvii ad un fallimento, purtroppo per lui, aveva più senso politico
ed istituzionale l’impostazione di Craxi. Serve un disegno generale di
riforma per valutare la trasformazione dello Stato e gli effetti che possono
essere prodotti nel corpo democratico della Repubblica, mentre se si procede
a spizzichi e bocconi, incartandosi ogni volta sui dettagli - ancora non si
capisce con che meccanismo si vogliano eleggere i senatori - si rischia di
andare al disastro. Il premier vuole presentarsi come un uomo del fare contro
chi non ha mai fatto niente. Benissimo, ma non
basta. Bisogna che le cose abbiano un senso e la riforma del Senato,
dispiace, non ce l’ha. Quali saranno i rapporti fra
capo dello Stato e governo, quando tutto il potere politico si poggerà su una
sola Camera controllata da un solo partito? Ed il senato non elettivo
diventerà un inutile orpello, o invece avrà la forza sufficiente per
confliggere su alcuni temi fondamentali con Roma, 23 settembre 2015 |
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